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31/07/10

Finalmente trovata la cura per il lesbismo! E non solo…

(da Curare l'omosessualità, Lesbismo)
Non solo sarà possibile curare il lesbismo, ma addirittura prevenirlo. E’ quello che ha affermato l’endocrinologa pediatrica Maria New, dopo aver utilizzato per anni una sostanza chiamata dexamethasone.
In realtà è già dal febbraio 2008 che lo studio in questione è stato pubblicato sulla rivista Archives for Sexual Behavior, ma solo qualche settimana fa alcuni siti hanno fatto rimbalzare la notizia. Utilizzato prevalentemente nei casi di iperplasia congenita adrenale (CAH) pare che possa avere una notevole influenza sull’orientamento sessuale omo e bi dei feti di sesso femminile con CAH.
L’assunzione durante la gravidanza di questa sostanza impedirebbe anche lo sviluppo di comportamenti poco “eterosessuali” tipici in situazioni di CAH: basso desiderio di sposarsi e scarso interesse nel giocare con le bambole (“a mamma e figlia”), nel prendersi cura dei neonati, nel sognare ad occhi aperti o fantasticare sulla gravidanza e la maternità. Tutte cose che è risaputo non appartengono alle lesbiche, ma solo alle donne eterosessuali .
Ora, al di là delle possibili implicazioni dell’idea del “gene gay”, è semplicemente assurdo pensare, a mio avviso, che la medicina possa o debba intervenire sull’orientamento sessuale di qualcun*, così come assurdo sarebbe ipotizzare una medicina per la stupidità o l’arroganza.

E tu che ne pensi?

09/07/10

MIA FIGLIA æ LESBICA

Quando Enzo Concia, cattolico e antifascista, festeggiò gli ottant’anni, sua figlia Paola arrivò ad Avezzano con Ricarda, la fidanzata tedesca. Lui vedeva la nuova parente per la prima volta e la salutò con gentilezza, ma appena l’ospite stappò la bottiglia di Riesling portata in dono da Francoforte, il signor Concia dichiarò con voce stentorea che il vino tedesco non gli piaceva: «Voi ci avete invasi e io non lo dimentico». Ricarda sorridendo fece un brindisi alla guerra che era finita e anche Enzo Concia bevve il suo bicchiere.
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Paola Concia (deputata del Partito democratico), Imma Battaglia (manager e attivista diritti civili), Titti De Simone (ex parlamentare di Rifondazione comunista) sono tra le pochissime lesbiche dichiarate presenti sulla scena pubblica italiana e sono tutte impegnate nella battaglia per i diritti delle persone Glbt (gay, lesbiche, bisessuali, transessuali). In Germania, Anne Will, la più nota anchorwoman della tv pubblica, ha annunciato in diretta la relazione con una collega. In Islanda, Johanna Sigurdardottir è la prima donna a guidare un esecutivo e anche il primo capo di governo al mondo apertamente omosessuale. A Los Angeles, la star dell’intrattenimento televisivo, Ellen De Generes e l’attrice Portia De Rossi sono state fotografate felici al loro matrimonio, il gossip adora i tormenti d’amore tra la cantante Lindsay Lohan, ex regina delle commedie Disney, e la fidanzata Samantha Ronson. In Italia non ci sono personaggi femminili popolari della tv, del cinema, dello sport, dei media, che abbiano mai detto apertamente di amare le donne.
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Ogni pettegolezzo è duramente smentito (Leonia del Grande Fratello 9 giura vendetta legale) oppure sopito con vaghe dichiarazioni di bisessualità, talvolta di castità. «Invece la visibilità è tutto e deve essere forte, continuativa, positiva», dice Claudia, 26 anni, neolaureata in architettura, romana, impegnata in DiGay Project, l’associazione per i diritti glbt fondata da Imma Battaglia. L’assenza di volti, corpi, nomi ed esperienze di lesbiche sulla scena pubblica non aiuta ragazze e famiglie a venir fuori e riduce all’osso un immaginario collettivo che le vuole mascoline, interessate a sport faticosi, scorbutiche con gli uomini, magari bruttine. Uno stereotipo comodo che nega e falsifica le vite di un milione di donne almeno.
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Le lesbiche sono belle, simpatiche, cicciottelle, noiose, bionde, magre, ironiche, eleganti, infermiere, avvocate, precarie, dirigenti, amano le All Stars e i tacchi, hanno la cellulite oppure no, certune sono mascoline e/o muscolose, non c’è una uguale, esattamente come tutte le altre donne. Spesso però i genitori non lo sanno. «Io non avevo mai visto una donna omosessuale in vita mia prima che sapessi di mia figlia», dice Marisa, 64 anni, mamma attiva in Agedo (Associazione genitori di persone omosessuali).
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Dieci anni fa, quando trovò la lettera galeotta, la signora non riusciva a pronunciare la parola lesbica: «Ci sentivo dentro il carico dispregiativo. Preferivo gay che era breve e svelto». Per Marisa le lesbiche erano “maschietti mancati” ma andò con la figlia in discoteca e vide «che erano belle e femminili». Portò pure la ragazza dalla psicologa, ma capì che era lei a dover cambiare, si rivolse all’Agedo dove fu sostenuta e da tempo ormai aiuta le madri di altre ragazze lesbiche. Della sua esperienza Marisa dice: «Sono una persona chiusa e timida, ma per stare accanto a mia figlia sono uscita dal guscio e mi ha fatto un gran bene». «Dove ho sbagliato? Le ho regalato poche Barbie?», si chiedeva Gianfranca (Lecce), quando scoprì che la figlia amava una ragazza.
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La sua bambina, però, aveva diviso i giochi con la sorella gemella e già nell’adolescenza una era omosessuale, l’altra etero. Dopo anni di dolori, pianti, litigi, Gianfranca e il marito Giacinto sono sereni, ma per lungo tempo il padre considerava «un capriccio» che «volesse farlo sapere a tutti», nonna compresa. Alla fine si è fatto la sua ragione: «Anna sa che stiamo con lei e si sente protetta per affrontare il resto del mondo».

Margherita Graglia dirige a Reggio Emilia l’unico consultorio pubblico sull’orientamento sessuale aperto a genitori e figli. Con la ricerca Modi di, la più grande mai condotta sulla salute delle persone Glbt e in dieci anni di lavoro ha constatato «che le ragazze fanno coming out in famiglia un po’ più dei maschi, i padri hanno spesso una reazione pacata, ma le madri sono le prime a saperlo e ad avviare un dialogo. In uguale misura, i genitori temono che le loro figlie siano discriminate, aggredite, maltrattate e fanno i conti con l’equivoco di pensare che non saranno mai nonni». Sostiene Graglia che «in media, le ragazze riconoscono la propria omosessualità e la dichiarano in famiglia un po’ più tardi rispetto ai maschi». Avvantaggiate da un pregiudizio sociale meno violento, in apparenza, verso l’omosessualità femminile, ma alla lunga, secondo la psicologa, una superficiale tolleranza «finisce per privarle di un’identità anche pubblica forte e sessuata».
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Le lesbiche, in realtà, sono ampiamente organizzate sul territorio e in Rete. Esistono chat, associazioni, forum, luoghi di confronto in cui si scambiano storie familiari drammatiche (la maggioranza) e serene (poche, incoraggianti, da far conoscere), ci sono discussioni su diritti, sesso, pornografia, razzismi, musica, moda e gossip come in qualsiasi altro luogo di ritrovo tra ragazze, virtuale e non. La libertà in Internet però non è la stessa che si ritrova nelle relazioni della vita reale quotidiana dentro e fuori la famiglia. La cifra emotiva prevalente del coming out è (ancora) il dramma, il pianto, i sensi di colpa, la vergogna e «l’incapacità di accettare e accogliere la totale esperienza dei figli così diversa dalla propria», dice Maurizio Palomba, fondatore dell’Istituto Gaycounseling.
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Forse la chiave è arrendersi, apprezzare la capacità di amore e di cura che le figlie hanno con la loro compagna, non pretendere che tutto tra genitori e prole possa essere reciprocamente spiegato e approvato. La mamma di Imma Battaglia ha 80 anni e ha tirato su quattro figli con la disciplina di un soldato. Alla signora Luisa non è mai piaciuto che sua figlia fosse lesbica e tanto meno che guidasse il Gay Pride nell’anno del Giubileo (2000), ma quando le si chiede di Imma, dice così: «È figlia mia e la difenderò per sempre, l’ho partorita io e sono guai per chi me la tocca».

di Alessandra Di Pietro
Fonte: Gioia